12/04/2008

L'utopia della neutralità (Catt. e Ps.) di T. Cantelmi - (5/8)

Cattolici e Psiche «Valori religiosi e psicoterapia: l'utopia della neutralità» di  Tonino Cantelmi Pubblicato su Psichiatri Oggi – aprile 2008, anno X, n. 2  psichiatri oggi logo  

  Secondo Renik (1996), il concetto di neutralità è pieno di buone intenzioni ma non riesce comunque a svolgere il compito per il quale è stato formulato: esso non ci fornisce un obiettivo utile sul quale basarci mentre svolgiamo il nostro lavoro di analisi clinica.           Questa visione è sostenuta dall’epistemologia contemporanea che ha mutato la nozione di realtà e di osservatore, e che ha finito con il rendere sempre più insostenibile qualsiasi ricerca della validità della conoscenza indipendentemente da soggetto conoscente. La realtà non è più considerata unica ed oggettivamente data una volta per tutte, ma viene vista alla stregua di una rete di processi multidirezionali interconnessi tra loro ed articolati in livelli multipli di interazione simultaneamente presenti ma irriducibili l’uno all’altro. Come afferma Guidano (1996) in questa dinamica l’osservatore, anzi, la sua osservazione introduce un ordine in questa rete di processi interconnessi, grazie al quale le possibili ambiguità inerenti alle interazioni multiple e simultanee che continuamente hanno luogo acquistano invece, ai suoi occhi, caratteristiche di univocità e necessarietà. In altre parole, lungi dall’essere esterna e quindi “neutra”, ogni osservazione è autoreferenziale, riflette sempre se stessa, e cioè l’ordine percettivo su cui si basa, piuttosto che le qualità intrinseche dell’oggetto percepito. Inoltre, dato che è impossibile distinguere il nostro ordinamento del mondo dal nostro essere nel mondo, la conoscenza individuale è inseparabile dall’esperienza personale. Viene allora a cadere la possibilità di un punto di vista esterno ed imparziale, grazie al quale diventa possibile analizzare la conoscenza a prescindere dal soggetto conoscente.           I terapeuti non rimangono liberi dai loro valori anche quando intendono farlo (Houts & Graham, 1986; Kelly, 1990). Negli anni una crescente letteratura sul ruolo dei valori in psicoterapia ha confermato che la terapia non è un’esperienza priva del coinvolgimento valoriale (ad es. Kelly e Strupp, 1992; Beutler & Bergan, 1991; Bergin, 1991, 1980; Kelly, 1990; Jensen & Bergin, 1988; Daines, 1988; Beutler, Crago, & Arizmendi, 1986; London, 1986; Tjeltveit, 1986; London, 1986; Houts & Graham, 1986; Arizmendi, Beutler, Shanfield, Crago, e Hagaman, 1985; Lovinger, 1984; Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983; Strupp, 1980; Weisskopf-Joelson, 1980; Strupp & Hadley, 1977; Lowe, 1976). Il vero problema non è quindi come essere neutri, quanto piuttosto come utilizzare i valori a vantaggio della terapia senza abusare del potere terapeutico e della vulnerabilità del paziente e purtroppo, in merito a questo, la ricerca è molto scarsa. Inoltre, come afferma Bergin (1991), i terapeuti non sono addestrati a concettualizzare la terapia in termini valoriali e ad utilizzare i valori nel percorso terapeutico. Strupp (1980) ha affermato che è inevitabile che il cliente divenga consapevole dei valori del terapeuta, non importa quanto questi cerchi di essere neutrale durante gli incontri. In più, sostiene che avere un terapeuta completamente neutrale può danneggiare alcuni clienti che hanno bisogno di una relazione con un essere umano ‘reale’, piuttosto che un tecnico impersonale. Secondo Rappoport (s.a.) nello sforzo di agire professionalmente, diveniamo enigmatici, frustranti, difensivi e, a volte, traumatizzanti. Un ampio numero di studi empirici forniscono prove che i clienti vengono sicuramente influenzati dai valori del terapeuta. Uno studio di Houts & Graham (1986) sembra confermare che i valori giocano un ruolo importante nel processo, nell’esito e anche nell’assessment della terapia. In altri studi la convergenza tra i valori del terapeuta e quelli del cliente è stata associata al miglioramento del cliente (Arizmendi, Beutler, Shanfield, Crago, & Hagaman, 1985; Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983; Beutler, 1979, 1981; Beutler, Pollack, & Jobe, 1978; Hlasny & McCarrey, 1980; Richards & Davison, 1989). In una review Kelly (1990) concluse che è possibile affermare che la convergenza dei valori del terapeuta e del cliente avviene nel corso della terapia, ed è collegata ad un’iniziale differenza nei valori tra di loro (Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983); ed inoltre che la convergenza dei valori è collegata alla valutazione del terapeuta dei miglioramenti del cliente (Beutler, 1979; Kelly, 1990; Rosenthal, 1955; Tjeltviet, 1986) o al modo in cui il cliente misura i propri miglioramenti (Beutler et al, 1983). Contrariamente i valori del terapeuta non sembrano cambiare (Rosenthal, 1955; Tjeltveit, 1986), suggerendo che il termine “convergenza valoriale” sia inappropriato, quando sono solo i valori del paziente a modificarsi (Tjeltveit, 1986). Quello che appare importante è che i terapeuti non sembrano avere un controllo cosciente di questo processo di conversione. In più, anche quando sono consapevoli della natura valoriale della terapia, tipicamente non sembrano concettualizzare il loro lavoro in termini di valori (Williams, 2004). Come affermano Williams e Levitt (2007), queste scoperte farebbero sì che il timore di Meehl (1959), che la ricerca potesse dimostrare che tutti i terapeuti sono dei cripto-missionari, sia divenuto la nostra realtà. Nonostante questo c’è poca ricerca su come i terapeuti negoziano i conflitti di valori ed il ruolo dei valori in terapia. Ritengo che la posizione migliore per il terapeuta, consapevole che la terapia non possa essere un’impresa priva del coinvolgimento valoriale, sia quella di (a) divenire consapevole dei propri valori e del modo in cui questi possono influenzare il processo terapeutico ed i soggetti coinvolti, (b) essere esplicito riguardo i proprio valori; (c) saper concettualizzare la psicoterapia in termini valoriali o essere consapevole dei valori che soggiacciono al processo terapeutico. Purtroppo non esiste una formazione specifica che aiuti gli psicoterapeuti in questa impresa. In molti hanno sostenuto che i terapeuti debbano essere in grado di esaminare i propri valori (Bergin, 1980,1985; Beutler, 1979; Herr & Niles, 1988; Strupp, 1980; Tjeltveit, 1989; Walker, Ulissi, & Thurber, 1980; Weisskopf-Joelson, 1980). Tenendo conto dell’influenza dei valori nella psicoterapia Vachgn e Agresti (1992), a prescindere dall’approccio utilizzato nel dialogare con i valori in psicoterapia, le abilità di base richieste sono quella di tradurre ogni aspetto della terapia nei valori impliciti che gli soggiacciono. Houts & Graham (1986) sostengono che i training di formazione psicologica debbano considerare di includere una sensibilizzazione alla componente valoriale che renda gli studenti in grado di riconoscere i propri valori e di divenire più sensibili a quelli dei loro pazienti. Un ampio numero di scrittori ha sostenuto la posizione che i terapeuti dovrebbero essere espliciti con il paziente circa i propri valori, prima e durante la terapia (Renik, 2001; Bergin, 1991, 1985, 1980; Coyne & Widiger, 1978; Hare-Mustin, Marecek, Kaplan, & Liss-Levinson, 1979; Humphries, 1982; Lewis, Davis, & Lesmeister, 1983; Weisskopf-Joelson, 1980). Bergin (1991) sostiene che più il terapeuta è onesto circa i propri valori, più probabilmente il paziente sarà in grado di mettere in atto risposte nei confronti delle scelte valoriali che sono sottostanno agli obiettivi e alle procedure del trattamento. Secondo tale Autore la strategia di essere vago o obbiettivo non funziona perché (a) spesso prendere una posizione valoriale in quel silenzio può esser visto come un consenso per certe azioni; (b) le proprie inclinazioni vengono comunque comunicate in momenti critici essenzialmente involontariamente  (Murray, 1956; Truax, 1966); (c) il paziente può sentirsi biasimato, messo in pericolo o autorizzato; (d) le resistenze del paziente possono non essere dovute a motivi interni al paziente, bensì una risposta alla personalità dell’analista (Bader, 1995). Infine, come sostiene Doherty (1997), credo sia importante includere il “discorso morale nella pratica psicoterapeutica” e “sviluppare nei terapeuti le virtù e le capacità necessarie per divenire per i loro clienti dei consulenti che abbiano un riferimento morale, in un mondo troppo dispersivo e moralmente opaco”. Afferma inoltre che “[…] influenziamo inevitabilmente il comportamento e i pensiero morale dei nostri pazienti; […] Il punto cruciale è come essere rispettosi dell’altro e responsabili della nostra influenza sui pazienti. […] I terapeuti hanno il privilegio di stare con le persone in momenti di particolare intensità personale e morale delle loro vite. In precedenza potevamo credere ingenuamente di […] poter mantenere le mani pulite dalle scorie morali delle decisioni dei pazienti e ancora di poter sfuggire all’infinito la responsabilità di definirci moralmente nei nostri ruoli professionali verso i nostri pazienti, i nostri colleghi e la collettività. Ormai non possiamo più nasconderci dietro il velo da incantatore dell’obiettività e della neutralità morale”.   psichiatri oggi logo