08/05/2017

Monopoli, Taranto, Pontelangorino: perché i ragazzini non percepiscono le conseguenze reali del loro agire?

Fonte: Agenzia Sir del 08/05/2017

Cosa scatta nel cervello di un ragazzino quando precipita giù dalla scogliera un anziano, così, tanto per provare che effetto fa, sovvertendo il principio di rispetto per chi ha percorso gran parte della vita? O meglio, cosa non scatta?

E la stessa domanda potremmo farla pensando ai vandali minorenni, che nella già provata città di Taranto devastano ripetutamente il luogo dove dovrebbero crescere come futuri cittadini, la scuola, così, senza alcun senso, sfregiando e sfidando, tanto da costringere il Presidente della Repubblica a sanare la ferita con la sua visita ai luoghi profanati.

E cosa scattò (o non scattò) nella sciagurata vicenda di Pontelangorino, minuscola frazione, dove tutti si conoscono e dove tutti sono stati puntualmente sorpresi dal comportamento dei due sedicenni che hanno ucciso a colpi di ascia (a colpi di ascia nel sonno!!) i genitori di uno dei due, sfregiando senza pietà uno dei comandamenti più belli, “onora tuo padre e tua madre” perché sarai felice, espressione della gratitudine per la vita e patto fecondo tra le generazioni perché la vita stessa abbia futuro?

Come è possibile premeditare un piano così efferato senza provare una morsa al cuore, senza potersi dire “ma che sto pensando”?

Come è possibile uccidere così crudelmente e poi giocare tranquillamente alla play station, come se loro stessi fossero intrappolati in un surreale videogioco dell’orrore?

E le stesse domande potremmo ripeterle per gli incredibili e dolorosi episodi di cyberbullismo, troppi, dove vittime designate, ragazzini e più spesso ragazzine, vengono umiliate sui social in modo crudele e senza pietà, da cyberbulli sprezzanti (e dall’indifferenza o dal silenzio colpevole di tanti coetanei responsabili di un cybermutismo inquietante e spettrale).

Cosa impedisce ai ragazzini di oggi di percepire le conseguenze reali del loro agire, di cogliere il dolore inflitto all’altro, di non superare almeno i limiti irreversibili, quelli della vita e della morte?

No, non pensate ai videogiochi e al loro carico di aggressività, all’assenza dei genitori (troppo adultescenti e sbiaditi per occuparsi delle vite dei piccoli), al collasso dell’educazione (professori in fuga, genitori sotto scacco, adulti vigliacchi), alla desertificazione delle famiglie (dove il velocissimo bofonchiare qualche monosillabo è la massima espressione del dialogo), alla spinta al narcisismo e all’onnipotenza, alla negazione del limite come stile di vita.

No, non pensiamo a tutto questo. O almeno non solo.

E neanche ci basta la pur sottile spiegazione di Massimo Recalcati, che reclama il recupero del “senso di colpa” (già, proprio di quel senso di colpa, tanto vituperato e poi seppellito negli ultimi decenni con esasperato accanimento dall’esaltazione narcisistica, dall’autogiustificazione, dall’indulgenza estrema con se stessi, dall’autoassoluzione senza se e senza ma e dalla deresponsabilizzazione dei comportamenti), perchè senza il senso di colpa non c’è “legge” che possa iscriversi nel cuore dell’uomo, non c’è argine all’oltraggio e non c’è contenimento all’attitudine predatoria nei rapporti umani. Ancora non basta.

Perché per spiegare tanta crudeltà dobbiamo pensare ad un processo più radicale, che porta alla inesorabile accelerazione di una perdita dell’umano, una sorta di de-umanizzazione sociale (e social), dove le vittime, anziani o genitori o coetanei, sono spogliati dell’umano e oggettificati. Siamo più crudeli, perché i processi di de-umanizzazione sono più prepotenti, più pervasivi e più persistenti. E forse in questo il trionfo della tecnologia gioca un ruolo non proprio innocente.